Ritorno al Domani

 

La storia di questa canzone

La sonata di Jocelin

Curiosamente, questa canzone di perdita e malinconia nasce dalla lettura di un romanzo di fantascienza di L.R. Hubbard uscito in Italia nel 1954, Ritorno al Domani (To the Stars).


Alan Corday, un giovane tecnico di una Chicago non troppo lontana nel futuro - due o trecento anni - viene rapito da un gruppo di disperati su di un’astronave (il “Levriero del cielo”), e costretto a compiere con loro un viaggio nello spazio a velocità appena sub-luce: quando, dopo alcuni mesi, riuscirà a fare ritorno e correrà disperato alla ricerca di Cherita, la sua adorata fidanzata rimasta sulla Terra, si troverà a vagare nella notte e nel buio di una Chicago mutata, che egli non riconosce più, proprio come Cherita, ormai un’arzilla vecchietta dalla mente un po’ confusa, non riconoscerà più lui, dopo averlo atteso inutilmente per più di settant’anni.


Siamo nello spazioporto di Chicago subito prima che il protagonista venga rapito. Egli viene attratto, nella notte, da una musica di pianoforte che proviene non si sa bene da dove, una musica ultraterrena, affascinante e misteriosa:

“Alcune luci ammiccavano, qua e là, oltre lo schermo di un vicolo ingombro di rifiuti d’ogni genere. Stava scendendo verso il quartiere delle taverne, ora, fuori della zona dei funzionari. Non era armato, e il giubbetto di seta bianca che indossava faceva di lui un magnifico bersaglio per i ladri. Riuscì tuttavia a trovare la strada verso le luci lontane.

Un gatto nero balzò con un miagolio spaurito da un angolo buio, gli attraversò la strada e scomparve. Alan rise nervosamente pensando come quel rumore improvviso lo avesse fatto sussultare. Spaventarsi per un gatto!

Fu allora che udì le prime note della melodia. Strane note, soprannaturali, quasi ossessionanti e terribili, che venivano da un antico pianoforte: musica lenta, semplice e nello stesso tempo complessa. La stampa sensazionale lo aveva indotto a credere che ci si potevano aspettare molte cose nella pianura, ma non una melodia come quella. Alan s’intendeva un po’ di musica, ma non aveva mai udito nulla di simile. Quelle note aleggianti nell’aria erano come una calamita. Senza accorgersi di essersi mosso in quella direzione, si ritrovò ritto davanti a una modesta casa di vetro, gli occhi fissi sulla porta.

Era una delle tante taverne. Un ubriaco giaceva privo di sensi sul marciapiede, con la testa sporca di sangue; un sibilante russare gli usciva a stento di tra i denti. E al di sopra di quel corpo, aleggiava quella musica soprannaturale.

Alan penetrò nell’alone di luce giallastra e spinse la porta. Data la quiete che vi regnava, si aspettava di trovare il locale deserto, a eccezione del pianista. Ma sotto la fumea azzurrastra che sembrava trascinarsi tra il soffitto e il pavimento, una folla di uomini gremiva il locale; sedevano tutti in silenzio, coi bicchieri in mano, fermi a mezz’aria”.


Da: “Ritorno al domani “ di L. Ron Hubbard, Edizioni Mondadori, 1954


Dalla musica per pianoforte, eseguita dal capitano dell’astronave sui cui poi verrà trascinato il protagonista, un po’ in memoria degli arruolamenti forzati al tempo dei corsari, mi venne l’idea di far nascere una canzone, il lamento di questo povero cristo che contro la sua volontà si ritrova strappato al suo mondo ed al suo amore. Il testo è di mia madre, Cecilia Kellermann, psicoterapeuta e poetessa, la voce invece è di mio padre.

                                                                                                Edoardo Volpi Kellermann